di Roberto Menia –
Sviluppare il concetto tecnico e commerciale di nuovi stadi per non perdere altro terreno rispetto al resto d’Europa, nella consapevolezza che è possibile ammodernare il comparto calcistico italiano senza svilire il rispetto per il territorio. Sulla costruzione dei nuovi stadi sta montando la polemica politica da bassa cucina, ma ancora una volta si smarrisce il senso di un’operazione che, se condotta con visione e lungimiranza, potrebbe portare benefici (e non zavorre) a un Paese ancora indietro dal punto di vista dello sviluppo infrastrutturale sportivo. Il pollice in su rispetto ad un tentativo legislativo che intende offrire all’Italia nuovi impianti in un’ottica di “stadi all’inglese” è ovviamente subordinato alla reale possibilità concessa ai territori di fare rete e non speculazione.
Per questi motivi sarebbe ragionevole e produttivo riuscire a creare un’efficace sinergia tra società di calcio, comuni e nuovi investitori che realizzino (come fatto dalla Juventus a Torino) stadi all’inglese per creare occupazione e profitto. Tra l’altro procedendo su questa direttrice, il calcio italiano potrebbe anche sperare di recuperare competitività nel continente, dal momento che i risultati sportivi degli ultimi anni non sono stati forieri di trionfi. L’esempio del magnate indonesiano Erik Thohir, neo azionista di maggioranza dell’Inter, può essere un buon viatico, per tentare di invogliare chi acquista le quote di una squadra italiana a completare quel business sportivo con attività complementari che abbiano un doppio effetto: da un lato far crescere, parallelamente alla squadra, anche la città che la ospita (con precisi riverberi occupazionali) e da cui è rappresentata sul terreno di gioco, grazie ad investimenti di natura commerciale e ludico, come lo splendido impianto del Chelesa a Londra insegna; e dall’altro attirare nuovi capitali che sbarchino nel Belpaese attratti da un business che sia finalmente a trecentosessanta gradi.
Ma per ottenere questi risultati occorrerà anche sburocratizzare un Paese che ha proprio in carte bollate, permessi e ritardi amministrativi atavici, un vero e proprio freno a meno che è permanentemente tirato. Accanto all’imprescindibile regolamentazione sul consumo del suolo, anche al fine di evitare una cementificazione selvaggia, sarebbe il caso che un tavolo tecnico si occupasse di interpellare le società di calcio del Paese, interpretandone le esigenze: per evitare l’ennesima legge scritta e approvata senza domandare prima un parere a chi dopo ne dovrà fruire. Non va dimenticato che l’Italia è tra i Paesi maggiormente arretrati in Europa in materia di impiantistica sportiva ad ogni livello e gli errori strategici commessi in occasione della costruzione degli impianti per Italia ’90 non andranno ripetuti. L’esempio della Juve è lì a indicare la strada, seguita a breve anche dall’Udinese: ovvero stadi di proprietà, con una minore capienza (a Bari l’assurdo di un mega stadio da 60mila posti praticamente sempre deserto), dotati di moderne forme di approvvigionamento energetico “pulito” che siano il centro di un vero e proprio quartiere sportivo e commerciale. Nell’auspicio che non rimanga, ancora una volta, uno dei tanti sogni italiani sulla carta.
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